Teatro

Berlino, La damnation de Faust

Berlino, La damnation de Faust

Berlin, Deutsche Oper, “La Damnation de Faust”, di Hector Berlioz

Dannazione coreografica

Il mito di Faust ha ispirato numerosi musicisti, da  Mendelssohn a  Fenelon, passando per Schumann, Gounod e Berlioz, ma anche Busoni, Schnittke e Manzoni, che hanno restituito del mito una diversa interpretazione drammaturgica e musicale a seconda del proprio tempo. Alla Deutsche Oper è in scena una nuova produzione della Damnation de Faust di Hector Berlioz, dramma sinfonico per soli e orchestra inizialmente concepito come opera da concerto ma che, data l’indubbia forza teatrale, fu, a partire dal 1893, sempre più rappresentato in versione scenica.

Si tratta di un’opera-oratorio la cui messa in scena è problematica in quanto procede per tableaux autonomi e molto differenziati che richiedono cambi scena repentini per non interromperne il flusso narrativo. La soluzione proposta a Berlino si rivela ideale in quanto consente alla rappresentazione di scorrere senza cesure per tutta la durata dello spettacolo (due ore e dieci senza pause) in una riuscita fantasmagoria scenica.
La scena ideata da Emma Ryott, curatrice anche dei riusciti costumi, è una piattaforma inclinata immersa in uno spazio nero che ruota accompagnando il “viaggio” di Faust e il suo ruotare ne svela la parte sottostante dove vengono ambientati di volta in volta lo studio di Faust, la taverna di Auerbach, l’abitazione di Margherita. Un sistema di botole e scale a scomparsa consente il rapido e continuo passaggio dalla parte superiore a quella sottostante della piattaforma.

La regia è affidata al coreografo Christian Spuck che inevitabilmente dà un segno coreografico forte allo spettacolo aggiungendo mimi che rappresentano spiriti psicologici e infernali e imprime movimento curato nel dettaglio anche al coro. L’integrazione tra  mimi, coro e personaggi genera talvolta immagini illogiche ma contribuisce a dare una diversa caratterizzazione a ogni singola scena e a rappresentare il mondo illusorio e incongruo generato da Mefistofele.

All’inizio, prima che parta la musica, vediamo Faust immobile e pensoso a una scrivania mentre due mimi con una coreografia speculare e contrastata ne rappresentano l’anima divisa; poi Mefistofele si materializza dall’oscurità e inizia il viaggio. La taverna di Auerbach, oltremodo affollata di studenti o soldati con l’occhio bendato in piedi sui tavoli,  ha un tocco grottesco da cabaret che si addice alla musica eclettica, dove fughe liturgiche e canzoni popolari convivono. L’entrata in scena di Marguerite è anticipata da una bambola che Mefistofele tiene fra le mani come fosse un pupazzo voodoo; la natura è un quadro in bianco e nero calato dall’alto davanti a cui Faust intona un canto pastorale estatico; casette giocattolo illuminate dall’interno come candele natalizie sono disposte dal coro sulla scena a creare un villaggio tipicamente tedesco.
Non convince la marcia ungherese che si conclude con un brutale stupro da parte dei soldati di una contadina. Meglio la danza dei folletti con i cloni di Marguerite in una città notturna, mentre Marguerite è  vista di schiena immobile su di una sedia. La cavalcata viene risolta con stilizzate proiezioni di cavalli sullo sfondo, mimi che abbozzano scene di combattimento e in primo piano Mefistofele che tiene le mani sulle spalle di Faust impietrito quasi a ghermirlo. Una volta che Faust precipita nell’inferno si torna alla situazione iniziale con Mefistofele alla scrivania che nel silenzio scoppia in una risata luciferina.

Il Faust di Berlioz non ha tutte le sfaccettature di quello goethiano, è piuttosto una figura malinconia e passiva, aspetti che  Klaus Florian Vogt con un canto lirico irreprensibile, ma molto statico scenicamente, porta alle estreme conseguenze. Il tenore tedesco dalla voce cristallina, così originale nelle sue interpretazioni wagneriane, presta la  voce dal timbro chiaro al protagonista risolvendo con sorprendente naturalezza la scomoda tessitura. Ma, per quanto il timbro sia affascinante, l’esecuzione perfetta e la dizione francese curata, non c’è sufficiente differenziazione drammatica: sembra tutto risolto con uguale lirismo e si rischia la noia. Manca una reale portata emotiva nell’invocazione alla Natura come pure nella scena d’amore. Troppo poco Faust, ma molto Vogt, che sembra compiacersi per primo del proprio canto ipnotico e angelicato.
Deludente il Mefistofele di Samuel Youn, stilisticamente troppo lontano per fraseggio e dizione dal diavolo salottiero e sottile di Berlioz. La voce, seppur possente, manca di fluidità di emissione e soprattutto non ha quella articolazione puntuale e leggera necessaria per la souplesse della serenata, ma anche per un semplice “Hop Hop”.
Ci è invece piaciuta la Marguerite di Clémentine Margaine per la voce scura e un registro centrale corposo capace di slancio emotivo autentico. Se nella “Canzone di Thule” se ne apprezza la capacità di accento, è soprattutto in “D’amour l’ardente flamme” che fa scaturire tutto il suo potenziale drammatico.  E dal suo primo apparire dona quel calore interpretativo a cui Vogt sembra estraneo. Marko Mimica è un Brander di buona comunicativa, Heidi Stober è la sopranile voce sola.

Donald Runnicles dirige con impeto l’orchestra disposta, oltre che in buca, anche ai lati della scena per marcarne il ruolo protagonista con un potenziamento dello schianto sonoro. L’esecuzione è avvincente ma la timbrica risulta poco differenziata, una lettura inevitabilmente alla “tedesca”, più attenta alla componente muscolare che non a quella di tinta e sottile variazione ritmica, che manca di quel trascolorare di nuances tipicamente francese necessario a stemperare l’enfasi di fondo. Convincono i momenti di gigantismo orchestrale dove Runnicles fa emergere tutto il potenziale drammatico come la marcia ungherese o il Pandaemonium,  piuttosto che i passaggi che vorrebbero dinamiche più sfumate, ma  la direzione è teatrale al punto giusto e tutti i nodi drammaturgici vengono ben  risolti. Una menzione al corno inglese di Chloé Payot che accompagna la grande aria di Marguerite dove voce e strumento solista dialogano con grande delicatezza sul palcoscenico.

Il coro diretto da William Spaulding offre un canto che si piega in modo duttile alle varietà stilistiche richieste e sorprende per un movimento scenico così accurato e dinamico da integrarsi a perfezione con quello dei mimi danzatori.

Teatro quasi esaurito e successo caloroso alla fine per tutti gli interpreti.

Visto a Berlino, Deutsche Oper, l'8 marzo 2014

Ilaria Bellini